
L’inespugnabile castello di Enna: come un’aquila sulla roccia.
Quella del Castello di Enna, detto di Lombardia (foto 1), è una storia favolosa, a tratti indecifrabile, che si perde nella notte dei tempi e diventa leggenda. La storia dei suoi assedi è tessuta da una serie di mirabili prodezze e la sua conquista avvenne solo grazie all’inganno o alla resa volontaria.
Non sappiamo chi fu il primo uomo a mettere piede sull’altopiano ennese; secondo il racconto di Padre Giovanni da Castrogiovanni, la rocca (foto 2, 3) sarebbe stata abitata dai ciclopi: “in questo castello nell’anno 1616, in quella parte del primo cortile dov’è il pozzo dell’acqua salsa, si ritrovorno in una gran fossa sottoterra di longhezza palmi 18 una gran testa di gigante colla maggior parte dell’ossa del corpo, e la detta testa era tanto grande, che dentro capiva un tumulo di frumento colmo”.
Gli storici antichi ritenevano che la fondazione del castello ennese fosse talmente remota, sì da potersi identificare con la dimora del leggendario re Sicano, marito di Cerere, padre di Proserpina.
Confortati oggi da seppur labili indizi, possiamo affermare che l’area del castello ennese venne frequentata, fin dalla preistoria, da popolazioni indigene che i primi storici chiamarono “Sicani”. Tra questi indizi spicca una tomba preistorica a grotticella ben visibile nella parte alta dell’antico ingresso ipogeico del castello nonchè una serie di enigmatiche incisioni rupestri, raffiguranti la medesima figura antropomorfa tracciata seguendo uno schema a Φ (phi), ripetutamente graffita nelle pareti di un ingrottato del terzo cortile e attribuibili al Neolitico (foto 4).
In epoca ellenistica e per tutta l’età romana, il Castello di Enna non esisteva ancora (almeno nelle fattezze odierne) in quanto l’area, già naturalmente fortificata, era destinata alle funzioni sacre dedicate al culto della doppia dea Demetra, la madre, e Kore, la figlia.
Dopo l’avvento del cristianesimo, in periodo bizantino, tutta l’area sacra subì una radicale trasformazione: gli antichi templi vennero rasi al suolo forse in funzione di sconsacrazione e le stesse pietre riutilizzate per fortificare il sito in vista dell’imminente minaccia delle incursioni saracene, iniziate nel 652 e culminate con lo sbarco a Mazara nell’827.
Fu nel corso dell’VIII sec. d.C. che venne realizzato un complesso fortificato mediante la costruzione di una torre quadrangolare, delimitata da un fossato, i cui resti sono visibili nel primo dei tre cortili, detto di San Nicolò, così chiamato per la presenza dell’omonima chiesa dedicata a questo santo, patrono degli Altavilla. Nello stesso periodo, nella valle Santa Ninfa, tra il castello e la rocca di Cerere, vennero edificati un’altra torre e un possente muro al fine di presidiare la Porta Pozzillo posta al termine della via di accesso all’acropoli, oggi ribattezzata “Via Sacra”. Durante le ricerche archeologiche del 2008 un trancio di colonna greca venne rinvenuto tra i resti di riempimento del muro di fortificazione.
Nel periodo bizantino il tradizionale nome della città, Henna, venne accompagnato dal sostantivo latino “castrum”, fortezza o accampamento fortificato, sicché il castello finì per identificarsi con la città stessa, chiamata Castrum Hennae.
Ultimo baluardo delle vacillanti forze bizantine, la rocca venne presa con l’inganno nell’859 d.C., completandosi da lì a poco la conquista musulmana della Sicilia.
Con l’invasione araba la fortificazione bizantina dovette subire ulteriori trasformazioni e rinsaldamenti a causa delle lotte intestine che spesso imperversavano tra i vari emirati. La corruzione linguistica del nome Castrum Hennae fece sì che la città venisse chiamata Qasr Jani e poi, successivamente, italianizzata in Castrogiovanni.
Ancora una volta il tradimento, quello del Kaid di Enna, Ibn Hamud, agevolò il trionfo sugli arabi del Gran Conte Ruggero il normanno (1088 d.C.) allo stesso modo in cui, in periodo romano, si potè soffocare il grido di libertà lanciato da Euno, il re degli schiavi liberi (136 a.C.). Più tardi, l’inespugnabilità del sito mise a dura prova la tenace volontà dello svevo Enrico VI il quale, di fronte alle difficoltà della conquista, fu obbligato a rinunciare all’assedio.
Del periodo arabo così come di quello normanno non abbiamo precisi riscontri architettonici sebbene sia documentata l’esistenza di un’importante area fortificata già nel 1145, quando ci si riferisce alle decime “de balio et de Lombardia quae sunt de Capella Castelli” (Sicilia sacra, Pirri, 1733, p. 529). Il riferimento è alla Chiesa di S. Martino, che fu un tempo Cappella Reale, sebbene nulla rimanga oggi se non i resti delle fondamenta visibili nel terzo cortile del castello e alcune colonne.
Il toponimo Lombardia risale a questo periodo; infatti, per la conquista della Sicilia i normanni si avvalsero di mercenari longobardi provenienti dal nord Italia, promuovendo l’immigrazione del ceppo franco – latino ritenuto più fedele e affine alla cultura normanna. Anche a Enna si insediò una comunità lombarda che diede il nome al quartiere Lombardia e allo stesso castello.
Dell’assetto della città in periodo normanno non rimane molto se non la lusinghiera descrizione del geografo arabo Muhammad al-Idrīsī del 1154: “Castrogiovanni, citta’ posta nella sommita’ d’una montagna, racchiude un forte castello e saldo fortalizio; vaste sono le sue proporzioni e spaziosa l’area sua; ha mercati ben disposti; palagi che s’ergono a grande altezza; industrie urbane e traffico di merci; artigiani, mercanzie e derrate….feraci i suoi campi da seminagione; ricercate le sue civaie; fresca l’aria e le comodita’ del paese ricreano chi va e chi viene. Insomma Castrogiovanni e’, per sito, il piu’ forte dei paesi che Dio ha creato; il piu’ saldo per costruzione: ed oltre tanta fortezza, v’ha nel monte ove sorge de’ campi da seminare; ne’ mancano le acque correnti in tutto quell’altipiano. Rocca meravigliosa, in sito eminente e tale che la non puossi occupare per colpo di mano, ne’ pur oppugnare” (dal “Libro di Ruggero” – Palermo 1154).
Pur non potendosi dubitare dell’esistenza di precedenti fortificazioni militari, ad eccetto dei resti bizantini sopra detti, nulla attualmente rimane che possa con certezza attribuirsi ad un’età pre-federiciana e tanto meno classica.
E’ certo che nel 1239 il castrum doveva già esistere nel suo complesso organismo, in quanto esso era ricompreso nella lista dei castra exempta, la cui ristrutturazione e manutenzione era posta a carico dei cittadini.
Il castello di Enna, citato nei documenti ufficiali svevi ed angioini come “castrum regium”, fu demaniale quindi appartenente alla corona e, come tale, affidato alla responsabilità di un magister castelli o semplicemente castellanus, responsabile anche delle prigioni.
Al servizio di guardia dei vari castelli demaniali era deputato un numero variabile di servientes. Un decreto regio del 3 maggio 1272 conferma la primaria importanza del Castello di Enna; infatti, fra i soli 39 castelli che figurano, esso vi appare con la stessa forza di Messina cioè con 50 servienti, il castellano milite, il socio castellano milite e il cappellano; agli altri castelli, invece, vennero assegnati da 20 a 5 servienti e un solo custode. Un diploma di Carlo I, del 1272, ci rende noto il nome di un Simone Polizzi, “castellano terrae Castriennae”, al quale fu concesso di potersi fregiare delle armi di famiglia e di portare il cingolo e gli speroni d’oro.
Una tradizione sorta alla fine del XIX sec., sostenuta dal Prof. Giuseppe Agnello nel 1935 (L’architettura sveva in Sicilia, p.301-379), attribuisce a Federico II di Svevia (foto 5) la costruzione sia della ottagonale Torre di Federico che del Castello di Lombardia anche se non è escluso che la costruzione di entrambi gli edifici possa, invece, attribuirsi al figlio, Manfredi di Sicilia (1232 – 1266), ovvero a Federico III d’Aragona (1296-1337).
Come ritenuto dal Prof. Agnello, il castello venne integralmente trasformato con la costruzione ex novo del circuito delle mura esterne, con la ripartizione interna in tre cortili (foto 6) e la edificazione, nel terzo cortile detto di San Martino, del “palatium”, riservato al sovrano, presidiato dalla magnifica Torre Pisana o Torre delle Aquile (foto 7), dall’alto della quale si può godere la più vasta visione panoramica della Sicilia dopo quella dell’Etna.
La divisione dello spazio in tre piazzeforti, attuava una tecnica di difesa “graduale”, in quanto ciascun cortile era strutturato in modo tale da poter resistere agli attacchi militari indipendentemente dalla sorte degli altri. Con tali imponenti lavori di ristrutturazione il Castrum di Enna, che rappresenta oggi uno dei castelli più grandi d’Europa, ritornò ad essere la piazzaforte demaniale più importante dell’interno della Sicilia con il delicatissimo compito di difesa e sbarramento della linea del Salso; uno dei capisaldi della rete di castelli che da Trapani a Siracusa, da Termini ad Augusta, chiudeva in una fitta “ragnatela” di qua e di là del fiume Salso le linee “forti” del territorio siciliano.
Più che un castello quello ennese era una cittadella fortificata da una rete di grandi cortine murarie protette, nei punti strategici, da un semplice quanto maestoso schieramento di venti torri quadrate, sebbene già nel XVI sec. molte di esse erano già crollate (in Historia Hennensis di Vincenzo Littara, 1587).
A occidente il castello era collegato per mezzo di una porta munita di ponte levatoio (“ligneum pontem, qui facile, ubi necessitas exigeret, tolleretur, habebat”), oggi scomparsa ma ben visibile in un’incisione all’acquatinta del 1782 (foto 😎, realizzata da uno dei più famosi viaggiatori del Grand Tour, Jean Pierre Houel. Il ponte dava accesso alla parte della città situata più in basso, che assunse così il toponimo di “Quartiere del Ponte”.
Il più valido contributo all’efficienza bellica del sito era costituito dalla presenza di diversi pozzi e sorgenti d’acqua, a differenza di tutta la zona montana sottostante che ne era priva, costituendo ciò un grave impedimento per gli eventuali assedianti.
Il castello rappresentava il potere regio e, oltre ad avere una funzione militare aveva anche funzione residenziale. Spesso i servientes venivano reclutati in altre regioni del Regno affinché non venissero condizionati dalla popolazione locale.
In questo contesto politico – sociale Enna divenne “urbs inexpugnabilis” e con tale titolo, che riprendeva la famosa definizione di Tito Livio, la città venne gratificata da Federico II nel parlamento di Messina del 1233, allorchè l’imperatore svevo assegnò un titolo particolare ad ogni città del regno ammessa al Parlamento. Per gli abitanti di Enna fu la realizzazione della “positio omnino inexpugnabilis”, quasi il traguardo mitico di ogni iniziativa fortificatoria, la concretizzazione della medievale “ricerca dell’assoluto”, rappresentata dall’imprendibilità.
È molto probabile che in quel periodo venisse coniato l’attributo araldico della città di Enna (foto 9), un’aquila bicipite con un castello nel petto così definibile in termini araldici: “Di verde al castello di 3 torri merlate alla ghibellina, quella di mezzo cimata da tre spighe di frumento, il tutto d’oro. Lo scudo accollato all’aquila bicipite di nero con corona che posa e abbraccia ambo le teste e col volo abbassato di nero, membrata d’oro, linguata di rosso. Motto: “Urbs Inexpugnabilis Henna”. Il tutto in scudo sannitico di rosso”.
Il castello non mirava soltanto a proteggere la città, esso serviva anche a controllare i centri abitati più importanti, per popolazione, ricchezza e ruolo strategico. Le ribellioni occorse dopo la morte di Federico II di Svevia dimostrano l’odio dei cittadini verso i castelli urbani più che una vera e propria volontà di autonomia delle città. L’improvvisa morte di Federico II riaccese anche a Castrogiovanni il fremito delle libertà comunali travolte dall’energica reazione degli ultimi sovrani svevi. Il popolo di Castrogiovanni insorse con violenza: abbattè i baluardi del castello, uccise il castellano Guaimario e si costituì in governo indipendente; tuttavia, il vento della libertà durò poco. Castrogiovanni, forte del suo inespugnabile sito, resistette con mirabile tenacia ma dopo un lungo assedio, vinto dalla fame e rimasto solo nella sollevazione, il popolo ennese, nel 1257, si mosse a chiedere la pace e a promettere obbedienza al reggente di Sicilia Manfredi, figlio di Federico II.
Divenuto re di Sicilia nel 1258, Manfredi visitò Castrogiovanni nel maggio del 1260: fu in tale circostanza che egli ordinò alla città di ricostruire e restaurare, a proprie spese, il castello dopo i gravi danni subiti nell’ultima insurrezione. Il provvedimento non ebbe solo il carattere della punizione ma anche il significato del dominio militare: padrone del castello, Manfredi non doveva temere nulla dalla sottostante città. Vi ritornò l’anno successivo, attrattovi forse, oltrechè dalla bellezza del luogo e dall’interesse strategico della fortezza, anche dal proposito di porre fine alle fantasie suscitate dall’improvvisa apparizione di tale Giovanni di Cocleria, un malaccorto ciarlatano che riuscì a farsi passare per l’imperatore Federico II a distanza di circa dieci anni dalla morte di quest’ultimo; la sua somiglianza straordinaria con Federico commosse tutta la Sicilia, gli scontenti si unirono a lui e formarono una discreta armata. Infine, Cocleria fu scoperto e venne impiccato a Castrogiovanni insieme ai suoi complici.
Carlo d’Angiò tenne a Enna un forte presidio, il quale, al tempo dei vespri siciliani, si chiuse nel castello e poi si arrese senza spargimento di sangue.
Castrogiovanni fu molto apprezzata dai sovrani aragonesi. Pietro I la visitò nel 1283, egli si rivolse a Ruggero de Mauro ed a Bartolomeo de Legali da Castrogiovanni, dando loro l’incarico di preparare armi e cavalli per combattere Corrado D’Angiò; inoltre, vi insediò come castellano Federico Eximene de Luna, uno dei suoi uomini più fidati.
Federico III di Aragona, poco prima di diventare Re di Sicilia, quando Filippo d’Angiò sbarcò in Sicilia ed occupò Catania (1299), si ritirò a Castrogiovanni che divenne il suo centro operativo militare. Quando il 1° dicembre del 1299 andò personalmente ad affrontare il nemico, fu seguito da un gran numero di ennesi, i quali nella battaglia di Falconara furono i primi a guerreggiare e si distinsero per coraggio e valore.
In seguito, Federico III scelse Castrogiovanni come luogo di soggiorno estivo. Nel 1307 andò ad abitare nel castello con la sua famiglia e in quell’anno, su impulso della regina Eleonora, cominciò a edificare la maestosa chiesa madre.
Da Enna, il Re di Trinacria emanò molti decreti, e nel 1324 vi convocò il Parlamento, nel quale si stabilirono i limiti e i diritti del potere feudale.
Anche Pietro II di Sicilia (foto 10), figlio di Federico III, trascorreva buona parte dell’anno in questa città, promulgandovi molti decreti e quando, nel 1338, gli Angioini tornarono in Sicilia per muovergli guerra e sbalzarlo dal trono, re Pietro si ritirò a Castrogiovanni e da essa ordinò la chiamata alle armi. Quando, nel 1342, re Pietro morì nella vicina Calascibetta, lasciò Castrogiovanni, come tutta l’isola, nell’orrore delle guerre civili, provocate dai nobili, che per ambizioni di dominio, messi a capo di tante fazioni, si combatterono l’un l’altro.
Nel 1392, in un clima di guerra civile, gli ennesi insorsero contro il potere regio di Martino I di Aragona fino al punto di erigere un possente muro di sbarramento che si frapponeva tra la città e il castello; l’esercito regio si mosse dal castello verso il muro intermedio e secondo le cronache del tempo “la resistenza fu accanita per modo da non trovarsi signore, cavaliere, scudiere, nè altri di coloro che partecipavano al fatto, il quale non avesse riportato molti colpi di pietre o di frecce; e col fine di superare quella cortina di separazione, si montò per le scale, gli uni cadendo, gli altri caduti, rilevandosi e accingendosi a montare di nuovo con grande sforzo” (da una lettera al re di Aragona 1392). Alla fine i militari riuscirono a oltrepassare il muro e la città venne sacchggiata e devastata: gli ennesi contarono 800 morti, 50 dei quali furono fatti precipitare dai merli della rocca. Martino I, non soddisfatto dello scempio, in una lettera diretta al capitano di Noto scrisse che Castrogiovanni era stata trattata meno severamente di quanto meritava e che la corona avrebbe “avuto motivo di raderla dalla faccia del mondo”.
Nonostante la sua ribellione la città non venne infeudata e rimase demaniale, quindi inalienabile, grazie alla sua posizione strategica di “Umbilicus Siciliae”. Infatti, la dimora ennese, sembrò sempre destinata dalla natura stessa ad offrire ospitalità a principi e sovrani ogni qual volta, rumoreggiando il fragore delle armi, la Sicilia si trovasse esposta alle minacce di invasioni nemiche. Castrogiovanni apparve, come era naturalmente apparsa a tutti i conquistatori, la vigile sentinella e la base più salda di difesa interna della Sicilia.
La difesa del castello si faceva dagli spalti delle mura mediante il lancio di oggetti che, cadendo dall’alto, provocavano lesioni agli assedianti che si trovavano sotto le mura. A tal fine, si lanciavano spesso acqua e olio bollenti ovvero la micidiale pece che, una volta incendiata, aderiva alle superfici su cui veniva versata, continuando a bruciare.
Sappiamo per certo che nel corso della prima guerra servile gli schiavi capeggiati da Euno e asserragliati sull’acropoli, da un lato, e le legioni romane assedianti, dall’altro, guerreggiavano scagliandosi ghiande missili in piombo (contenenti precise iscrizioni identificative, foto 11) mediante l’uso delle frombole.
Senza dubbio, fin dai tempi più remoti, arco e frecce costituirono i principali mezzi di offesa. In periodo medievale si affermò l’uso della balestra (foto 12) in grado di scagliare con grande potenza e precisione micidiali dardi.
La dotazione dell’armamento individuale si completava con armi da combattimento ravvicinato: pugnali, spade (foto 13), mazze d’armi, scuri, nonchè armi inastate come alabarde (foto 14), picche, falci, ronconi, lance e giavellotti.
I più facoltosi potevano ricorrere a mezzi di protezione individuale come maglie metalliche, armature e corazze nonché a copricapi come bacinetti, zuccotti, morioni (foto 15), borgognotte (foto 16) ed elmi chiusi con celata (foto 17): nulla racconta così profondamente dell’intreccio di vita e di morte come il fulgore della corazza di ferro forgiato a martello (foto 18).
Purtroppo, nessuno di questi armamenti è pervenuto ai nostri giorni fatta eccezione per alcune palle di pietra (foto 19) da catapulta o da trabucco (non sappiamo se in uso degli assediati o se lanciate dagli assedianti), che vennero rinvenute nel primo cortile durante le ricerche archeologiche del 2008.
Le officine dei castelli siciliani erano dotate dei materiali necessari per costruire armi e macchine da lancio come catapulte o trabucchi almeno fino a tutto il XV sec. e fino all’avvento delle armi da fuoco che rivoluzionarono il modo di fare la guerra e di costruire castelli. Nel primo cortile del nostro castello vi sono i resti di un grande forno o calcara (foto 20) usata verosimilmente per la produzione della malta necessaria per la costruzione del castello stesso e per la sua manutenzione. Un altro forno più piccolo, scoperto negli anni ’50 si trova nel terzo cortile nei pressi della Torre Pisana (foto 21 e 22). Tenuto conto che la materia prima per la calcinazione era costituita dalle rocce calcaree è facile immaginare quale sia stata la fine dei templi pagani e dei relativi ornamenti, di cui nulla ormai rimane da diversi secoli. Del resto, la calcinazione dei materiali di recupero da complessi greco – romani in rovina era un fenomeno abbastanza frequente in periodo medievale.
Fino al XIV -XV sec. i castelli, come quello ennese, ebbero mura più sottili e alte torri quadrangolari, tuttavia, con l’aumentare dell’efficienza dei cannoni vennero costruiti castelli con pareti più spesse e torri cilindriche più basse in modo da presentare una minor superficie d’impatto alle cannonate che venivano assorbite e distribuite dalla curvatura del muro. Le nuove tecniche costruttive resero obsoleti i castelli di vecchia generazione facendo venir meno la loro importanza militare.
La vita quotidiana del castello di Lombardia è testimoniata oggi da interessanti maioliche medievali di produzione locale (foto 23, 24, 25, 26, 27, 28, 29) esposte al Museo regionale della ceramica di Caltagirone. Altre maioliche, rinvenute all’interno del Castello fin dagli anni ’50 (foto 30), forse usate dai sovrani che lo abitarono, attendono di essere valorizzate nella loro sede espositiva migliore che sarebbe certamente quella in cui vennero trovate.
La monarchia in Sicilia finisce di costruire castelli con Federico III e, già durante il suo regno, potenti feudatari cominciarono a competere con il re nella edificazione di complessi fortificati. La seconda metà del ‘300 vede l’erezione di decine di castelli baronali, fra grandi, piccoli e minuscoli. Nel ‘400 si assiste, più che all’apertura di nuovi cantieri, alla faticosa manutenzione del patrimonio architettonico demaniale già esistente.
Come ipotizzato da Agnello (1935, p. 318), la decadenza del castello di Lombardia iniziò nel XV secolo, quando, pacificata la Sicilia sotto gli spagnoli, furono soprattutto i castelli e le fortificazioni costiere a mantenere importanza militare.
Nel ‘700 il castello di Lombardia era già parzialmente in rovina (Agnello 1935, p. 318) tuttavia, nel 1806, Ferdinando I di Borbone, temendo che lo spirito rivoluzionario francese si diffondesse in Sicilia, stabilì a Enna la riserva della truppa: nel 1810 vi destinò il Reggimento di Val di Noto, nel 1811 quello di Val Demone e poi, nel 1812, il 31° Reggimento Britannico e quello della Legione Italica.
Castrogiovanni, forse perchè non tanto ligia al governo borbonico, forse perchè i suoi cittadini mal difesero i diritti della loro città, la quale, per vari secoli, aveva dato il nome ad una delle valli di Sicilia (Vallo di Castrogiovanni), il 15 aprile 1812 fu soppressa dal numero delle deputazioni di Sicilia e nella nuova circoscrizione del 1818 fu esclusa dal numero dei capi valli e dei distretti.
Nel 1837 Ferdinando II di Borbone, dopo aver visitato il Castello di Enna, lo ritenne “buono solo per far la guerra alle stelle”.
Nel 1887, pur essendo utilizzato come prigione, il castello veniva descritto come in pieno sfacelo (foto 31) e negli anni successivi ne vennero sottratte anche le pietre per alimentare l’edilizia cittadina, così com’era avvenuto in passato per i templi pagani, ridotti in polvere.
Negli anni ’30 del XX secolo il primo cortile fu trasformato in teatro all’aperto (foto 32) inaugurato nel 1938 con l’Aida, mentre vaste cisterne idriche furono ricavate sotto il “cortile delle vettovaglie”, distruggendosi così l’importante stratigrafia archeologica del sito (foto 33).
Durante la seconda guerra mondiale, la posizione strategica di Enna venne ripresa in considerazione tanto da divenire sede del comando generale della 6ª Armata del regio esercito, nota anche come “Armata degli Altipiani”, nonché delle truppe tedesche alleate. Sul fianco del castello venne costruito un rifugio antiaereo, noto come “Le Sette Stanze” e su tutta l’area vennero posizionate diverse postazioni di mitragliatrici antiaeree (foto 34).
Nel dopoguerra, tra il 1951 e il 1959, il castello subì interventi conservativi e di ripristino che, tuttavia, ne alterarono pesantemente la struttura.
Dal 2021, grazie ad un accordo stipulato tra il Comune di Enna, l’Università di Siena e la Soprintendenza ai BB.CC.AA. di Enna, sono state avviate proficue attività di ricerca al Castello di Lombardia con l’auspicato obiettivo di offrire alla Città di Enna il giusto riconoscimento tra le capitali medievali d’Europa. Attualmente, sono in corso lavori di rifacimento dell’anello stradale circostante il castello finalizzati a valorizzare tutta l’area, da sempre ad alta vocazione turistica.
Alla fine di questo racconto, il grembo materno della storia mi avvolge offrendomi la confortante certezza che le cose già accadute non potranno essere altro che ciò che furono, ricordandomi che:
“…Là dove un giorno v’albergò il livore, la sete di conquista, or v’è la pace ed i vecchi manier, dal tempo rosi, come giganti, sui crinali eccelsi, risognando le pugne, inermi e soli, lottano con i venti e le tempeste,
Incappucciati dalla bianca neve, dormon sognando, la passata storia.
Non temon più gli assalti e le battaglie.
Come ogni cosa umana, lentamente, dopo aver visto susseguirsi i secoli, già rassegnati, attendono la fine.
Molti son già macerie, pietre informi che ci ricordan come tutto passa, come tutto è fugace e passeggero come la gloria, figlia dell’orgoglio, è come frana che si perde a valle.
Oh di quante fortezze, un tempo indome, non c’è più nulla.. solamente un nome !”
(dalla poesia “Aquile sulle rocce” di Giuseppe Ganci Battaglia, Palermo 1901-1977).
https://www.ennamagazine.it/…/L%e2%80%99inespugnabile…