
Accolgo con piacere l’invito di EnnaPress ad esprimere, in breve, qual è il rugby che vorrei.
In particolare, da una testata attiva su un territorio in cui i club di rugby sono spariti.
Il rugby che vorrei, quindi, è in primis un rugby che torni nelle città, nelle aree da cui è sparito. E che venga seminato e attecchisca ove mai c’è stato.
Ne avrebbe a giovare la crescita del movimento, sia in termini di numeri che di qualità, che la riduzione delle percorrenze kilometriche.
Questo, ovviamente, passa per l’annoso nodo degli impianti.
Per questo, la leadership regionale dovrà essere autorevole e terza rispetto alle parti politiche, sì da essere scevra da dinamiche di alleanza, contrapposizione, sudditanza.
Il rugby che vorrei è un rugby di base, è un rugby femminile, è un rugby per le persone con disabilità. Sia il rugby integrato che quello in carrozzina, che come sappiamo è appannaggio di federazioni differenti.
Il rugby che vorrei è un rugby sostenibile, che guarda alla crescita interna integrata nello scenario mediterraneo e che – perché no? – punti ad essere un riferimento anche per le nazioni rugbysticamente emergenti in Africa.
Il rugby che vorrei è un rugby gestito in maniera professionale da volenterosi. Sostengo un netto taglio di incarichi e consulenze esterne. Le responsabilità vengano prese dal Presidente, dai Consiglieri, dai Delegati.
Il rugby che vorrei è un rugby che si ricordi della sua identità, in cui si gioca “insieme” agli avversari, e mai contro. Uno sport leale, duro ma corretto.
Il rugby che vorrei è un rugby che torni pienamente consapevole, ad di là degli slogan, del proprio ruolo pedagogico.
In tal senso, fondamentale è la presenza nelle scuole, con interlocutori e tecnici qualificati ed affidabili, che curino l’avviamento allo sport, a prescindere dalla disciplina di destinazione finale del soggetto adulto, e dell’eventuale pratica professionistica.
Il rugby che vorrei è un rugby la cui comunicazione esca dal “vicolo cieco” della retorica, e che concili divertimento, salute, cultura e coinvolgimento. Niente più “eroici gladiatori” cresciuti a birra e salsicce, bensì vertice di un movimento coeso, efficace, efficiente.
Il rugby che vorrei è un rugby democratizzato e digitalizzato, che usi LiquidFeedback per fare interagire costantemente le sue componenti “incubando” proposte ed idee, e che con Moodle integri la formazione continua a distanza.
Il rugby che vorrei è un rugby che si metta alle spalle campanilismi, gelosie, carrierismi con il deprecabile strascico di veleni, insinuazioni, boicottaggi, quando non deliberati attacchi e denigrazioni.
Il rugby che vorrei è donna, perché sono stufo di sentire dire che «non è uno sport per donne, al più quelle che lo provano saranno così mamme di bravi rugbysti». Anche perché non c’è scritto da nessuna parte che una donna sia obbligata o destinata a diventare madre.
Il rugby che vorrei è per tutti, perché sono stufo di sentire dire che «i disabili devono tesserarsi in FIR e dare un aiuto ai nostri club in amministrazione, dietro la scrivania».
Il rugby che vorrei è cultura, perché non è paradigma della vita e della storia umana.
Il rugby union che vorrei concepisce – finalmente – la pacifica convivenza con i fratelli del rugby league, senza più ridicoli tentativi di appropriazione e delegittimazione di una storia parallela, ma “altra” e almeno altrettanto emozionante.
Il rugby che vorrei, se sarà, è appannaggio di coloro che verranno eletti. Tra questi, non ci sarò io, che dopo aver dato il mio contributo di idee e stimoli, torno alla mia missione: informare.
Roman Henry Clarke