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E siamo arrivati al Giovedì Grasso…
Miuni arrivò!
Nella tradizione ennese, la festa così detta di “Miuni”, segna l’apice del periodo carnevalesco.
Usualmente osannata con bagordi e frastuoni, allietata da cibi ricchi e grassi, questa è l’ultima “botta” prima del silenzio quaresimale.
La storia della città racconta diversi episodi sulla festa di Carnevale, tra tutti, le feste da ballo nei grandi saloni nobiliari e soprattutto nel bellissimo teatro.
I nobili residenti “O chianu de Casi ranni” erano soliti organizzare un veglione sfarzoso presso , appunto, il Teatro Garibaldi. Lì si ballava e beveva fino a tarda notte e si racconta che la servitù de nobili invitati al banchetto , non essendo stata invitata, si riunisse nei pressi dell’attuale bar dell’angolo, laddove vi era un osteria. Lì, aperte porte e finestre danzavano al suon della musica che veniva dal teatro.
Al periodo della dominazione borbonica, sono noti invece i veglioni presso Palazzo Varisano e , si racconta, che lì approfittando delle maschere e dei travestimenti qualche bel giovine della servitù si intrufolasse a corteggiare le donzelle delle nobili famiglie anche venute dalla provincia e dando così vita alle casate così dette “marrasche” ovvero “miste”.
Che dire poi delle tradizioni culinarie, in testa “U purcu”. Il maiale, preferibilmente allevato in casa, era il vero protagonista della festa di Miuni. Di lui ogni parte veniva utilizzata , nessuno scarto, ma il meglio il non plus ultra era il sugo :denso, grasso e incredibilmente saporito veniva utilizzato per condire pasta fatta in casa (per lo più tagliatelle) o “a cincu purtusa” , un maccherone fatto appunto a cinque buchi giunto qui dai “Mastri” catanesi e legato alla festa di Sant’Agata , che avviene proprio nel periodo vicino al carnevale.
Per finire, “sfingi” e “pittiddi”, come se piovesse.
I costumi, soprattutto nel popolo, non sempre erano facili da reperire e non immaginate abiti ,accessori e maschere come li acquistiamo oggi.
I più abbienti si concedevano una maschera, in tessuto e lì finiva. La gente comune festeggiava coprendosi con “I Frazzati”, riconoscibili nei loro variegati colori sgargianti e cucite spesso, presso i “catoja de tilara” nel quartiere Fundrò.