
La grafiosi dell’olmo
Ci sono poche cose più solenni di un albero che veglia su un’antica dimora, o sulla strada che porta verso casa. E ci sono poche specie più quiete e sicure e solenni degli olmi. O dovrei dire c’erano. Qualche decennio fa, infatti, tutte le popolazioni di olmo, anche in Italia, furono spazzate via da una terribile infezione causata dalla variante di un fungo già presente dall’inizio del secolo scorso, Ophiostoma ulmi, la grafiosi dell’olmo. E’ facile incontrare lungo le strade gli scheletri bianchi dei tronchi di antichi olmi morti ormai da anni. La loro sagoma tetra resta lì, a ricordare il loro mondo perduto. E’ vero, alla base di questi monumenti al destino, nascono giovani fronde di olmi in sostituzione, ma non hanno più la possibilità di crescere come i loro genitori: la malattia ha trasformato l’olmo in una specie arbustiva, che cresce di pochi metri per qualche anno, per poi seccare all’improvviso, come arsa. E il ciclo ricomincia.
Ci sono solo pochi esemplari che hanno resistito a questa apocalisse (e sono per questo oggetto di studio al fine di trovare una possibilità di cura, selezionando individui resistenti). Alcuni di questi superstiti si vedono, nel nostro territorio, lungo le strade di arroccamento alla città, in particolare nelle vie sul versante nord della montagna, quel versante che prima della costruzione delle strade, compresa quella crollata negli scorsi anni, era un enorme fertile frutteto. Qualcosa di questo passato rimane ed è facile, ad agosto, affacciarsi dal Belvedere sulla valle e sentire risalire un odore di frutta, dolce, caldo, promettente. Resistono alcuni grandi noci, residui gruppi di ciliegi, di meli di antiche varietà (cola, gelate) e soprattutto rimangono le popolazioni di prugne cosiddette di Francia, una piccola susina ovoidale bionda e dolcissima, una cultivar locale, a rischio estinzione, che sarebbe opportuno classificare meglio e salvare dalla possibile scomparsa.
Era una pendice fatta di faticosi terrazzamenti, di quella che si chiama agricoltura eroica: muri a secco e strette strisce strappate alla montagna per ospitare la promessa di frutta. In questo mondo, gli olmi avevano un ruolo fondamentale, oltre a quello di segnare la presenza delle case sparse nelle convalli: dai rami dell’olmo, infatti, si ottenevano i tutori necessari per accompagnare nella crescita le giovani piante, soprattutto di vite.
Di tutta questa piccola civiltà rimangono vecchie foto più che altro. Ma vivono ancora le storie degli uomini che lavorarono quelle terre che scendevano dal monte verso giù e che furono tagliate a metà dagli espropri per la costruzione della Panoramica e quindi abbandonate alla macchia, al bosco.
Non dimenticherò mai il racconto del mio amico Mariano su suo padre. Aveva un fondo che, appunto, era stato destinato alla costruzione della nuova strada. Avrebbe dovuto lasciarlo definitivamente, entro poche settimane. Era la terra della sua infanzia, dove aveva imparato cos’era la vita. Capiva l’importanza di quell’opera per la nostra città e provava a razionalizzare il dolore, che comunque fu grande quando dovette una a una accarezzare le fronde che non avrebbero probabilmente rivisto il giorno seguente. Mentre Mariano mi raccontava questa storia, percepivo gli odori di una terra sacra per quegli uomini, i quali a dispetto di una vita difficile sentivano ancora in essa il richiamo di una madre.
Penso spesso a questo racconto, al senso di perdita che Mariano mi diceva aver visto negli occhi del padre alla notizia dell’esproprio della sua terra: lo sgomento per le cose che cambiano, il dolore mentre si rimane per qualche secondo immobili, impotenti, sconfitti. Come si può resistere, dimenticare, tornare a guardare avanti? Il tempo migliore è quello a venire, si dice da noi, ma è veramente così?
Quando percorro le strade protagoniste di queste storie, tremo perché non c’è quasi più nessuno che ricorda neanche i nomi di queste contrade, gli odori dei ciliegi di San Paolo, i richiami tra le case e i frutteti. Ci sono i pochissimi olmi che stanno resistendo alla grafiosi, sono gli ultimi testimoni, e spero che continuino a resistere, che le foglie cantino ancora al suono del vento.
Bisogna credere, continuare ad andare avanti, disse a Mariano suo padre nonostante lo strazio della perdita. Anche e forse soprattutto per trasmettere la nostra memoria alle giovani generazioni. Il tempo migliore è quello a venire.
Luca Alerci
Giugno 2025