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Tra gli excursus che vi ho proposto in questo mese ce n’è uno che vorrei percorrere, a me particolarmente caro, cioè quello di descrivere cosa vuol dire il tramandare da generazione in generazione la tradizione dell’essere confrate ignudo di padre in figlio, da primo genito a primo genito; la mia famiglia fin ora non ha mai saltato una generazione.
Perché è importante questo? Perché è uno dei punti, una delle regole di fondamentale importanza, non solo della confraternita ma anche della città di Enna, essendone ormai un tassello che ogni ennese racconta.
Il punto dello statuto della confraternita, a cui faccio riferimento, sancisce, difatti, che il posto assegnato sotto il bajardo della Madonna DEVE essere lasciato al primo figlio maschio dell’ignudo se l’erede rispecchia le caratteristiche del buon cristiano, di essere professato e di aver fatto i tre anni noviziato nella Confraternita degli Ignudi di Maria Ss della Visitazione, Patrona del Popolo Ennese.
Perché si è reso necessario nel 1874 dare un peso specifico a questa tradizione? Beh il motivo è presto detto: perché ad avere l’onore ed il privilegio di portare la Nave D’oro devono essere gli eredi degli stessi che in quel 29 Giugno 1412 “a la Misericordia” presero il simulacro e lo portano in Duomo.
Quindi gli attuali 124 portatori ricordano quei contadini.
È chiaro che, al giorno d’oggi, non sono tutti gli ignudi ad essere eredi di quei fortunati contadini, ma questo ce lo insegna sempre quel principio di Lavoisier che ho menzionato qualche settimana fa, ma in cuor loro tutti sanno che in quel momento hanno un ruolo fondamentale .
Sono, ad oggi, poche le famiglie che sono riuscite a tramandare il posto originale, tra queste c’è la mia.
Per me è un dolce ricordo aver conosciuto il (bis)nonno Eduardo (Gesualdo all’anagrafe) che fu un ignudo che ha lasciato il posto a mio nonno Cicco, lui a mio padre e lui a me. Prima di nonno Eduardo si alternarono un Pietro, un Gesualdo ed un Francesco.
Sempre dai racconti dei miei nonni, per noi essere ignudi è sempre stato un privilegio, ufficialmente dal 1874 ma anche da prima, da onorare in ogni momento; è stato, ed è tutt’ora, uno dei principali leit motive della vita quotidiana.
A conferma di questo passaggio di testimone c’è un oggetto molto importante che ad un ignudo non manca mai ed è il Medaglione, questo in foto fu indossato da tutti gli eredi che ho prima citato; indubbiamente è stato rinnovato il raso nel corso degli anni, ma il medaglione centrale è sempre quello. Rappresenta ormai da diversi decenni il posto che ci fu assegnato, ovvero il n°61, che è segnato a fuoco sul bajardo.
In questo medaglione è possibile notare la scritta “Castrogiovanni” e questo è un indice temporale che ci permette di capire quando è stato forgiato.
Un altra cosa, che solo chi ha qualche anno può ricordare, sono gli “abitini” altro ornamento fondamentale del vestiario del confrate, si indossa sulla mantella ed è composto da due parti uniti da due strisce di raso:
– una anteriore che raffigura la Madonna;
– una posteriore con Simbolo della M di Maria.
Per più di 100 anni ogni confrate ne aveva uno suo del tutto personale che veniva anche questo tramandato, quello che è arrivato a me, ma che non ho mai indossato, è di colore rosso, addirittura altri erano di colore nero, altri bianco.
Piccola chicca, alcuni avevano come effige dell’abitino davanti la Madonna del Carmelo e non della Visitazione; erano tempi diversi quindi i motivi potrebbero essere meramente legati a problemi di stampa.
Stessa cosa per effigie della mantella.
Un’altra cosa è cambiata, il colore della mantella e del fazzoletto; siamo da sempre stati azzurri ma fino agli anni 90 era un colore che tendeva verso il blu, ora sul celeste. Ma anche questo è una mera caratteristica legata alla sartoria di quel tempo.
In questi 150 anni un’altra abitudine è cambiata ed è quella del luogo in cui gli ignudi si vestivano. Oggi il 99% dei confrati si veste a casa e raggiunge il duomo o Montesalvo già con gli abiti indossati. Prima, raccontavano i miei nonni Cicco e Filippa, tutti si vestivano nella sacrestia del Duomo o nel chiostro del monastero ed i vestiti si mettevano piegati (stirati dal ferro da stiro a carbonella) dentro un fazzolettone chiuso unendo i quattro angoli con un nodo e si partiva dalle campagne, dopo aver lavorato, con i vestiti dentro questo fazzolettone, che potete vedere nella foto n°4. Questo lo usava il mio bisnonno prima e mio nonno poi.
Un altro particolare che mi piace osservare è la foto di una parte della mia famiglia, nel tempo ne siamo arrivati tanti altri e tutti confrati, questa foto risale ai primi anni 70, probabilmente 1974. Alcuni di loro oggi non ci sono più, altri sono ancora qui e sono quel legame indissolubile con quel passato, a TUTTI caro, che INEVITABILMENTE rappresentano (che si voglia o no).
Se questi oggetti potessero parlare quante storie racconterebbero? Quante cosa sanno che noi non immaginiamo nemmeno? Quanta vita hanno visto vivere in quelle processioni?
Ma perché l’esempio soggettivo può richiamare l’oggettività del tempo di festa? Perché alla fine dei conti ognuno di noi ha quelle tradizioni, confrati o no, che la festa della Madonna chiama, ed è un rito che inizia giorni prima:
“Unni simu a mangiari ppa madonna?” “Cchi cucinamu ppa Madonna?”
“Piglia i robbi da madonna ca i stiru!”
“Ama fari a spisa! Cchi fa facimu u farsumagru?”
“Cci nn’è mastazzola?”
“U du lugliu aia a essiri a Enna, ca a Madonna aia bidiri maca sulu passari”.