
Nel corso degli anni, come è naturale che sia, il modo di preparare i giocatori alle partite, quindi il modo di allenare, è cambiato molte volte. L’allenamento è diventato sempre più specifico e sempre più adattivo in relazione ai mutamenti del gioco stesso. Necessità di gara differenti hanno richiesto, ovviamente, metodi di lavoro differenti.
Fare la cronistoria completa della metodologia di allenamento diventerebbe però troppo complesso, tedioso e fuorviante. Prenderemo in considerazione quindi soltanto i cambiamenti avvenuti negli ultimi vent’anni nel tentativo di comprendere meglio le metodologie più recenti.
Ritengo che in questo lasso di tempo siano mutati in maniera decisa e sostanziale i parametri di riferimento del gioco e, di conseguenza, anche il modo di lavorare in allenamento.
Agli inizi del nuovo millennio il calcio (in Italia e non solo) aveva preso una direzione ben precisa rivolta più che altro alla prestazione atletica a discapito delle competenze tecnico-tattiche. Questo ha cambiato anche il modo di valutare il giocatore che non era quasi più visto come “calciatore”, ma piuttosto come un “atleta che gioca a calcio”. Se facciamo attenzione al significato profondo delle parole la differenza dei concetti appare sostanziale. L’individuo che si approcciava al gioco (professionista o dilettante, giovane o maturo che fosse) doveva prima di tutto avere un ottimo rendimento fisico durante i 90 minuti. Doveva quindi avere grandi doti aerobiche (con l’obiettivo di ridurre la soglia della fatica), una notevole forza e un’ottima velocità sia sul corto che sulle lunghe distanze. Questo richiedeva un meticoloso lavoro settimanale di preparazione atletica che necessitava di molto tempo a disposizione.
In quel periodo la figura del preparatore atletico assumeva una dimensione diversa. Quasi, se non del tutto, pari a quella dell’allenatore.
Il gioco è diventato molto più veloce, molto più intenso. I giocatori, chiamati a coprire grandi distanze ad alta velocità e ad effettuare contrasti e gesti tecnici con maggior vigoria, sono quindi diventati molto più potenti e molto meno precisi. Il gioco e lo spettacolo ne hanno, qualitativamente, risentito molto.
Gli ultimi anni però hanno visto un’evoluzione in parziale controtendenza.
Dato per assodato che ormai il calcio è diventato un gioco velocissimo e molto intenso, si è cercato di riacquisire però la qualità che si era perduta. Il giocatore oggi deve riuscire ad esprimere gesti tecnici puliti ed efficaci (più efficaci che necessariamente puliti, a dire il vero) in un lasso di tempo brevissimo e in spazi limitatissimi. Oggi giocare a calcio è sicuramente molto difficile se non si è adeguatamente preparati a farlo.
In un contesto di gara dove spazio e tempo sono assolutamente limitati diventa necessario sbagliare il meno possibile le scelte durante le numerosissime situazioni da dover fronteggiare. In parole povere, se negli anni ’60-’70-’80-‘90, un calciatore sbagliava un gesto tecnico o una scelta, aveva comunque buone possibilità di rimediare al proprio errore in quanto gli erano concessi spazi e tempi superiori. Oggi invece, gli stessi errori, comportano quasi inevitabilmente la perdita del pallone e l’opportunità, per l’avversario, di creare una qualsiasi situazione pericolosa.
Questo nuovo modo di concepire il calcio e di giocarlo impone, ovviamente, un nuovo modo di formare i giocatori e di allenarli. Per riuscirci dobbiamo analizzare il dettaglio della prestazione e individuare cosa avviene e cosa interviene a livello “molecolare” (intendo molecole di gioco – utilizzo un termine improprio che ci serve per capire bene quanto in profondità si debba andare a scavare) in un giocatore durante un frame di partita.
Andiamo con ordine. Abbiamo detto che il giocatore deve cercare di sbagliare il meno possibile la scelta e l’esecuzione di un qualsiasi gesto tecnico e tattico. Ma quali sono i prerequisiti, ovvero le condizioni che si devono creare un istante prima, del gesto tecnico o della scelta tattica?
Fondamentalmente sono cinque, che si legano tra loro ma che hanno diverse nature. I primi tre, che si sposano e che creno i presupposti per una scelta corretta sono: percezione, elaborazione e decisione.
Il giocatore, facendo uso dei cinque sensi (o meglio di alcuni di essi), cerca di percepire quante più informazioni possibili riguardo la situazione di gara che sta vivendo: collocazione sul terreno di gioco, distanza dai compagni, distanza dagli avversari, direzione del pallone, velocità del pallone, eccetera eccetera. Più informazioni il calciatore ha a sua disposizione, più sarà in grado di fotografare la situazione di gioco intorno a lui. In questo caso udito e visione periferica saranno le capacità percettive più importanti su cui lavorare.
Immediatamente dopo aver percepito le informazioni necessarie, il cervello del giocatore dovrà metterle in ordine, elaborarle quindi, per poi prendere una decisione sul da farsi. È fondamentale, nel calcio di oggi, che i giocatori abbiano capacità cognitive eccellenti, che siano quindi in grado di elaborare un gran numero di informazioni nel minor tempo possibile.
Fotografata la situazione è il momento di decidere cosa fare e come comportarsi per risolvere, nella maniera più corretta, quella singola situazione di gioco. Il momento decisionale è, di conseguenza, figlio legittimo del processo percettivo e di quello cognitivo. In questo preciso istante interviene però un fattore di determinante importanza: quello emotivo. L’essere umano è un animale a sangue caldo perciò qualunque decisione prenda, nel calcio come nella vita di tutti i giorni, sarà naturale conseguenza sia dei propri processi razionali che di quelli caratteriali ed emotivi. Un giocatore coraggioso, probabilmente, farà scelte più audaci, più rischiose; uno più timoroso invece sarà più portato ad effettuare scelte prudenti e conservative.
È così che si arriva al momento esecutivo. Il giocatore, dopo aver percepito, analizzato e deciso, esegue un qualsiasi gesto con o senza palla. Questo è il momento dove le capacità motorie e coordinative, abbinate alle qualità fisiche e alle capacità tecniche (di utilizzo del pallone quindi) si fondono e danno vita ad un gesto che sarà utilizzato come mezzo di problem solving.
Se pensiamo che una partita è giocata da 22 calciatori contemporaneamente in un lasso di tempo di 90 minuti (5400 secondi quindi) e che questi si muovono continuamente nello spazio in relazione al pallone ed ai movimenti gli uni degli altri, ne consegue che questa programmatica sequenza di processi avviene centinaia di migliaia di volte per ogni singolo atleta.
È proprio per questo che i calciatori, a fine incontro, accusano una grande fatica mentale oltre che fisica.
Tutto ciò di cui abbiamo parlato è assolutamente allenabile, con i dovuti carichi e le dovute propedeuticità, sin da bambini con metodi specifici abbinabili tra loro.
Trovo estremamente affascinante lo studio di ciò di cui si è parlato poiché dimostra ancora una volta quanto questo sport sia paradigma di vita dove il semplice ha radici complesse che, nel loro meticoloso ed incessante movimento, danno vita a nuova, disarmante, semplicità.
Ecco spiegato, ancora una volta, perché guardando il calcio siamo di fronte ad uno degli spettacoli più belli al mondo!
Mister uno domanda
1)Cosa vuoi dire forte tecnicamente in calcio ?
2)un giocatore puoi essere forte tecnicamente da un paese è peggio in un altro
Ciao Djib. Quando si parla di tecnica individuale si intendono le abilità del giocatore con il pallone.
Per quanto riguarda la seconda domanda secondo me bisogna distinguere la tecnica dall’adattamento. Un giocatore se ha abilità tecniche le ha in qualunque parte del mondo. Quello che incide sull’adattamento ad un paese o ad un altro è piuttosto in relazione alle competenze tattiche ed alla compatibilità ambientale